Le storie di Dorian


Presentazione:

Mi chiamo Dorian e mi piace scrivere storie di fantasia. Anche Dorian è, in parte, un nome di fantasia. E anche le storie che scrivo sono di fantasia solo in parte, perché la maggior parte delle volte è la realtà ad ispirarmele.

Il regista François Truffaut una volta disse: "amo il mio lavoro, perché metto in scena il mondo ma lo faccio andare come voglio io".

È questo che facciamo, quando diciamo di inventare delle storie.

Non le inventiamo mai del tutto e neppure raccontiamo la verità.

Rubiamo alla realtà molte cose, però poi cambiamo i finali.

Che poi è quello che gli scrittori hanno in comune con la psicologia in un certo senso: vogliamo entrambi cambiare il finale.


Il carretto passava e quell'uomo gridava ‘Granite’.

A cura di Dorian

Quand'ero bambina, ho davvero visto il carretto passare e quell'uomo gridare...’Granite!’

Si, perché in Sicilia, mia terra d’origine, in giro non si vedono quei graziosi camioncini dei gelati da film americano, ma scalcagnati furgoncini con altoparlanti che gracchiano annunciando la vendita quasi a domicilio di granite e briosce.

È uno dei ricordi più cari che ho della mia infanzia.

La mattina, a casa della nonna, noi cugini, tutti assiepati nel minuscolo balconcino che dava sulla strada, aspettavamo quel piccolo rottame a quattro ruote.

Era la nostra colazione d’estate.

Granita al cioccolato, al latte di mandorle, al gelso, al pistacchio di Bronte, al limone.

Chi non l’ha provata, non sa quant'è buona la granita siciliana, ma soprattutto non sa quanto può essere bello per un bambino vedere uno di quei furgoncini passare per le strade, fermarsi, venir preso d’assalto, sentire gli urli gioviali dei venditori, quel rimbombo di altoparlante festoso che rompe la quiete estiva dei quartieri...

Mi è capitato di ripensarci qualche anno fa, quando mi sono ritrovata di nuovo in Sicilia, dopo tanto tempo che non ci tornavo.

Ero in gita scolastica con le mie classi, eravamo a Modica e stavamo visitando il duomo di S. Giorgio.

Sui gradini della chiesa, un uomo anziano, con il suo carretto dei gelati, invitava i ragazzi a prendere una granita.

Gridava, nella maniera tipica dei venditori siciliani, che riescono a urlare con una strana e feroce allegria: Perché non la volete assaggiare? Questa è la mia granita.

Inspiegabile ondata di commozione e smarrimento da parte dei ragazzi, che erano quasi sul punto di fermarsi, nonostante la tabella di marcia ci imponesse di lasciare il duomo in fretta.

Mentre li esortavamo a sbrigarsi - la guida ci stava già dirottando in un’altra direzione - ho sentito più di qualche ragazzo commentare:

- Poverino, fa così tenerezza...

In realtà, il vecchietto, robusto e coriaceo, tutto ispirava fuorché tenerezza.

Ho chiesto, per pura curiosità: - Perché tenerezza? Stava solo vendendo delle granite.

-Si, ma lo diceva in quel modo...

-Quale modo?

Si sono guardati tra di loro, incerti. Poi una ragazza ha messo a fuoco la questione: - No, è che continuava a dire ‘la mia granita’ e allora, prof, non lo so. Fa tenerezza, giusto?

Quella risposta mi ha folgorato.

Credo di averci riflettuto, poi, per l’intera giornata.

Facciamo non so quante lezioni frontali sulle regole grammaticali di base, poi un vecchio venditore di granite usa una parola e i ragazzi scoprono di colpo tutto lo straordinario potere degli aggettivi possessivi.  Che sono terribili quando li usiamo in certi contesti (‘Questo è il mio paese, andatevene’, ‘Tu sei mia e non mi puoi lasciare’, ‘Questo è mio figlio e decido io il suo futuro’), mentre diventano così toccanti quando un vecchietto che vende gelati dice: perché non la volete assaggiare? Questa è la mia granita.

La morale è che dovremmo cominciare ad insegnare grammatica fuori dalle aule, ma fuori dalle aule noi insegnanti non abbiamo molte occasioni per farlo.

Quindi, genitori, aiutateci. Riflettete anche voi sulle parole che i ragazzi ascoltano, sull'effetto che le parole hanno su di loro. Fate grammatica esistenziale.

Alunni e docenti vi ringraziano anticipatamente.

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A.D. Anonimi Disconnessi. (a cura di Dorian)

 

Nella sala-convention del bellissimo Ecomostro Hotel, residenza a cinque stelle di tutti i senzatetto del quartiere, ogni venerdì sera si teneva l'incontro degli A. D., anonimi disconnessi. 

L'intera struttura, ovviamente, era priva di wi-fi e i partecipanti, all'ingresso, ricevevano i soliti volantini con gli slogan motivazionali.

Cerca Dio ma non su Facebook.

Mangia il tuo cibo, non fotografarlo! 

Smettila di usare i filtri per i selfie, tanto dal vivo resti sempre un cesso a pedali. 

Nella sala principale, oltre alle sedie e a un piccolo palco dove i partecipanti potevano condividere col gruppo le loro tragiche storie di dipendenza da social, c'era anche un tavolo sul quale era allestito un piccolo buffet. 

Niente di impegnativo: solo alcool di dubbia qualità, che gli A. D. più problematici, quelli cioè che erano ancora in fase di disintossicazione, usavano come metadone. 

Sul muro, campeggiava un cartello con la seguente scritta: Sei caduto nel giro di una chat di gruppo su Whatsapp e non sai come uscirne? Noi possiamo aiutarti. Seguiva un numero verde.

Gli ospiti arrivavano alla spicciolata intorno alle sette di sera. 

All'ingresso, tutti venivano perquisiti e i cellulari di ultima generazione confiscati.

Erano ammessi solo modelli di cellulare precedenti al 2008, adibiti solo all'uso di chiamate e di sms.

Le riunioni erano sempre presiedute dal Decano. Nessuno conosceva il suo vero nome (ovviamente). Si vociferava che, nella sua vita precedente, il nik con cui era conosciuto in rete fosse GrossaMazzaPerTe, ma nessuno era in grado di confermare. Si diceva anche che, da quando era sobrio, avesse deciso di rinunciare ad ogni forma di tecnologia tanto da considerare una ricaduta persino le serie Netflix. Altre leggende metropolitane raccontavano che avesse lasciato sua moglie quando l'aveva sorpresa a pagare online una bolletta della luce.

Il Decano, comunque, era molto amato, per la dedizione che metteva nell'aiutare altri ad uscire dal tunnel.

Come ogni venerdì, anche quella sera il Decano aprì l'incontro con la presentazione di un nuovo arrivato. 

-Amici, questa sera sono immensamente felice di presentarvi questo giovane coraggioso che si è unito a noi, perché, a memoria di tutte le riunioni degli AD, non abbiamo mai avuto nessuno più giovane di lui. Alzati PsychoSimo2005. Che tutti possano accoglierti con il consueto calore.

Il ragazzino, seduto all’ultima fila, si alzò in piedi, sollevando bene in alto un album da disegno perché tutti potessero leggere quello che c’era scritto.

Sono felice di essere qui. #ciao#graziediavermiaccolto#juvemerda. 

Di fronte alla perplessità degli astanti, il Decano rise amabilmente: - Il nostro giovane amico deve ancora riabituarsi alla comunicazione orale. Intanto facciamogli un bell'applauso di incoraggiamento. 

Ci fu un grande e commosso applauso.

#grazieatutti, scrisse PsychoSimo in risposta. 

-Bene, ora che ne dite di cominciare? Una cara amica, Alessia senza l'acca, vuole raccontarci una splendida storia, che possa essere per tutti voi di esempio e ispirazione. Prego, Alessia, raggiungimi sul palco. Con grande gioia, ti lascio la parola.

-Salve, disse la ragazza. -  sono Alessia senza l’acca e non uso Tinder da cinque mesi, venti giorni e tredici ore. 

Ciao Alessia, rispose la platea in coro. 

-Sapete tutti quant'é stato difficile per me disintossicarmi. Negli ultimi tempi, ero così abituata a ricevere foto di...beh lo sapete, parti intime maschili, che quando incontravo un uomo dal vivo, istintivamente sorridevo alla sua patta. Quando ho smesso di usare Tinder, ho avuto spesso crisi di panico, ero certa che sarei morta zitella perché, diciamocelo, di questi tempi, dove lo conosci un uomo?

Molte donne in sala annuirono con passione.

-Ma proprio mentre mi stavo rassegnando a un destino di solitudine reale, ecco che è accaduto. – Proseguì Alessia. – Due giorni fa, pranzavo sola da McDonald e un uomo, anche lui solo, si è seduto al tavolo di fronte al mio. Uno sguardo tira l'altro e... beh, lo so che è assurdo, ma alla fine ci siamo parlati. Dal vivo. 

Ovazione di stupore.

-Si, insomma, non è stata una grande conversazione. Mi ha chiesto se potevo dargli la mia salsa barbecue, visto che non la usavo, ma è stato un inizio. Insomma, sapere che posso ancora interagire con un uomo reale mi ha riempita di speranza e quindi stasera sono un donna felice. 

Scoppiò, commosso, un applauso, interrotto dalla voce entusiasta del Decano.

-Dio benedica McDonald e i suoi panini! E’ davvero una splendida notizia. Grazie di averla condivisa con noi, Alessia. E ora purtroppo un amico deve raccontarci qualcosa di meno bello. Non è vero, Alberto?

A testa bassa, un giovane salì sul palco. 

-Ciao amici. Mi vergogno molto di quello che sto per dire ma...due giorni fa, ho postato una mia foto su Instagram. 

Sussurri di biasimo e commiserazione percorsero l'uditorio. 

-So di aver deluso molti di voi, soprattutto Gianmarco, che è il mio sponsor da ben tre mesi. Il fatto è che mi ero appena fatto un nuovo tatuaggio e, di solito in questi casi, vado subito da Gianmarco che mi ripete incessantemente per 72 ore quanto sono fico. Ma purtroppo in quell'occasione Gianmarco non c'era, era alle terme con la fidanzata e quindi non ho resistito. Ero in astinenza da like ed…ho ceduto.

Il Decano circondò le spalle di Alberto in un abbraccio paterno: - Sappiamo tutti quant'è difficile vivere senza rinforzi costanti ed effimeri alla nostra autostima. Dovrai impegnarti di più. La prossima volta, fai quello che ti ho consigliato molte volte.

-Mi drogo o mi ubriaco. – Annuì Alberto, guardando il Decano con adorante gratitudine. – Certo, Decano. Prometto che la prossima volta farò tesoro dei tuoi saggi consigli.

-Molto bene. E adesso chiudiamo l’incontro di questa sera con il toccante e coraggioso racconto della nostra Madre Coraggio.

Un lunghissimo applauso accompagnò la donna che era salita sul palco.

-Amici, cominciò la donna, voglio ringraziarvi tutti per il sostegno che mi date. Da quando ho abbandonato la chat delle mamme e disattivato il mio account Facebook, la mia famiglia sta passando momenti molto difficili. Mio figlio non viene più invitato alle feste di compleanno. Mia figlia si vergogna di me e non mi rivolge la parola da mesi. Mio marito mi chiede cosa cucino a fare le mie splendide torte visto che non posso più postarle su Facebook. Ma io tengo duro, non deluderò il Decano o il mio sponsor o… - E qui la donna scoppiò in un pianto dirotto.

-Forza, cara, devi farti forza e resistere. Prima o poi i tuoi cari capiranno e saranno fieri di te. E adesso, è il momento tanto atteso della preghiera serale per ringraziare Dio di alcune cose belle del mondo reale.

- Gli ansiolitici! – Urlò felice una donna.

-Caffè e sigarette!

- Il sushi degli all you can eat!

- Le risse allo stadio!

-I gattini!

Ci fu un silenzio attonito, nel quale crebbe, palpabile, l’onda di un’improvvisa agitazione.

Alcuni crollarono sul pavimento, in preda alle convulsioni.

-Datemi la foto di un gattino! – Urlò un uomo grande e grosso, in preda ai tremiti dell’astinenza. – Vi prego! Devo linkare la foto di un gattino!

Furono attimi di grande tensione, in cui tutti gli sponsor si diedero gran da fare per calmare i loro protetti.

Quando la calma si ristabilì, il Decano redarguì aspramente la sua platea.

-Chi è lo spiritosone che ha pronunciato quella parola proibita?

Dal fondo, si alzò timida la mano di PsychoSimo2005, visibilmente turbato.

L’espressione del Decano si addolcì di colpo: - Mio caro ragazzo, ti perdono perché sei nuovo. Capirai, col tempo, che molti termini qui dentro non possono essere pronunciati, perché, come hai visto tu stesso, non si scherza con le dipendenze. E ora, su, abbandoniamo i pensieri peccaminosi e recitiamo con fede la nostra preghiera.

Si presero tutti per mano e chiusero in bellezza la riunione, come ogni venerdì.

 

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Il Paradiso delle donne. (a cura di Dorian)

Viviamo in un'epoca infernale, però stranamente piena di paradisi personalizzati.

La palestra, i centri benessere, le piscine termali, le comode poltrone dei nostri terapeuti.

E poi c'è lui: l'Angelo custode di tutte noi donne. 

Quello che, attraverso i suoi ipnotici massaggi craniali, ci conduce a una fase di regressione uterina. 

Quello che, in questi tempi così sudaticci e maleodoranti, ci avvolge in una nube di profumate essenze rigeneratrici. 

Lui, insomma, il nostro parrucchiere di fiducia. 

Il mio si chiama Antuàn. 

Antuàn è bellissimo. Un perfetto incrocio tra Charlize Theron e Jason Momoa. 

Le donne lo adorano. 

Già solo vedere il sorriso splendente di Antuàn cambia la tua giornata. 

Il suo passato è avvolto dal mistero. Le sue origini affondano nelle lontane Terre al di là di Gaeta.

Il suo Eden è tutto racchiuso in quaranta metri quadri di salone di bellezza.

Dentro, un tripudio di marmi rosa, tappeti damascati, trionfali scalinate da cui la principessa Sissi sembra doversi palesare da un momento all'altro, statue di Venere, fontane da cui l'acqua zampilla formando suggestivi arcobaleni. 

Di solito, Antuàn è molto severo con i suoi appuntamenti: ti fa accomodare solo se hai prenotato almeno due mesi prima. 

Ma, essendo anche un fine conoscitore del cuore umano e delle cinquanta sfumature di grigio delle occhiaie, capisce subito se si tratta di un'emergenza. 

In questo caso, anche senza appuntamento, riesce a incastrarti tra una cliente e l'altra. 

- Dammi solo un minuto, chéri. - La sua voce ti accarezza come un sussurro da boudoir, come una brezza marina nelle ore calde del solleone. 

Ti fa sedere su una delle raffinate poltrone Chesterfield rivestite di broccato settecentesco che, secondo le leggende, proviene nientedimeno che dal corredo austriaco della regina Maria Antonietta. 

Accanto alle sedie, anziché le solite, bisunte riviste-spazzatura, un’intera libreria con i classici della letteratura mondiale, da Dostoevskij all’Inferno di Walt Disney e Topolino.

Il minuto diventa un'ora, poi due. 

Ti addormenti cullata dalla splendida voce di Kate Bush, per la quale Antuàn ha un certo debole. 

Sogni cavalli bianchi che corrono su una spiaggia al tramonto. 

Sogni Priscilla, la Regina del Deserto. 

Sogni di mangiare croissant a colazione, corteggiata da un francese che assomiglia a Paul Newman. 

Alla fine, Antuàn ti sveglia dolcemente. 

Ancora imbambolata, lo segui, mentre lui, tenendoti per mano, ti conduce davanti a uno specchio contornato di globi luminosi. 

La tua faccia ha un aspetto meno orrido di come ti aspettavi, pensi, mentre Antuàn ti accarezza i capelli.

- Allora, mon chéri, dimmi tutto. Dimmi quello che desideri. 

- Rosso. - Dici. - È questo che desidero più di ogni cosa.

-Vogliamo qualcosa che ci accenda, eh? A che tipo di rosso pensavi?

-Rosso irlandese.

- Rosso carota, quindi.

-No, per carità. Niente carote. Irlanda, hai presente? Le scogliere. La birra. La pentola d'oro. Quella roba lì.

- Vuoi un tocco più dorato? Meches color birra? Sulla tua base, starebbero benissimo. 

- Ma che birra. Io ti parlo di quel rosso che evoca scogliere. Precipizi di roccia e sotto onde che s'infrangono. Brughiere d'inverno. Tramonti incendiati. Hai capito, no? 

- Oh oui. Sono stato in Irlanda una volta. 

- Ecco. Quello è il colore che voglio. 

- Verde. – Sospira Antuàn, con lo sguardo improvvisamente languido e trasognato. 

-Come? 

-Dell'Irlanda ricordo il verde. Sai, è un bel colore, il verde. Ti starebbe anche bene. Verde smeraldo, come la speranza. 

Ti allarmi: sai che non sta scherzando. E sai anche quant'è permaloso, quando qualcuno snobba i suoi consigli professionali. 

- Sai che non è una cattiva idea? Magari la prossima volta. Oggi mi sento proprio da rosso. Quel rosso che ti fa sentire come Catherine mentre corre per la brughiera. Capelli al vento, seno palpitante e poi esce Heathcliff.

- Heathcliff!- Esclama Antuàn con un lampo di lussuria negli occhi. - Si! Rosso fuoco, un rosso che accenda passioni alla Heathcliff. 

- Esatto. Proprio quello. Quella perfetta sfumatura di rosso irlandese che evoca l'amore di Catherine ed Heathcliff che si amano di un amplessi selvaggi nel bel mezzo di una brughiera. 

-Bello, si bello. - Esulta Antuàn. Poi un'ombra leggera gli incupisce lo sguardo. - Solo che non era l'Irlanda. 

- Cosa? 

- Catherine ed Heathcliff non possono accoppiarsi in una brughiera irlandese. Loro vivevano nello Yorkshire, Inghilterra. 

- Oddio, è vero. E quindi? 

- Quindi non posso farti un rosso irlandese, mi spiace. - Si rattrista Antuàn che è molto preciso in queste cose. - Devi cambiare colore, tesoro. Vado subito a prendere il catalogo dei colori dello Yorkshire. Aspettami qui. 

- No, un momento, aspetta... - Troppo tardi. Sei già legata alla poltrona da cinghie dorate con borchie diamantate. 

Urli disperata il suo nome: Antuàn! Antuaaan! 

E di colpo ti svegli. 

Clienti e parrucchieri ti fissano, senza troppa meraviglia. 

Capita che, dopo una giornata pesante e tre ore di attesa, la clientela si appisoli e faccia incubi. 

Antuàn sopraggiunge di corsa, con un diavolo per capello.

- Teso', stai calmina. Ho capito che andate tutti di fretta, ma io qui mica sto a pettinare criceti.

Poi si addolcisce: - Allora, come lo vuoi ‘sto rosso? Rosso battona, rosso Vanna Marchi, rosso carota-irlandese o rosso-vorrei-ma-non-me-lo-posso-permettere? 

Ci pensi su': - Le tue sono tinture biologiche, vero? Erbe tintorie, quelle robe lì?

-Come no. – Sogghigna Antuàn, mentre, con gesti da alchimista, mescola tinture all’uranio impoverito.

-Forse stavolta ripiego su una shampoo e piega. – Azzardi e poi provi a muoverti, ma è troppo tardi.

Sei già legata alla poltrona da cinghie dorate con borchie diamantate.  

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Il cerchio della lussuria è stato ristrutturato. (a cura di Dorian)

Ve lo ricordate il cerchio dei lussuriosi, di cui parlava Dante?

Okay. Dimenticatevelo. Non esiste più. È stato riconvertito. Ristrutturazione aziendale, l’hanno definita.

Del resto, da quando la lussuria ha smesso di essere considerata peccato, la clientela scarseggiava. I diavoli-guardiani si annoiavano parecchio.

Lucifero restava a bocca aperta quando scopriva che buona parte di quelle anime non era più destinata al suo inferno, ma alle cliniche di igiene sessuale.

Lo scoprì casualmente leggendo sul giornale il caso di Michael Douglas nel lontano 1990.

-Dipendenza da sesso?! – Tuonò sbattendo la rivista di gossip in faccia ai suoi demoni, che se ne stavano annichiliti. – Quindi ora, anziché condannarli, li curano??

Sembrava proprio che le cose stessero così.

Ma Lucifero è un grande imprenditore. Il primo ad aver creato una lobby globale, se ci pensiamo.

Un giorno qualsiasi nel nostro spazio-tempo, riunì il Consiglio d’Amministrazione Infernale e lanciò la sua proposta: - Ristrutturiamo il secondo cerchio. Tanto per iniziare, lo dividiamo in due.

-Perché in due? – Domandò una diavolessa con un elegante tailleur di Roberto Cavalli.

-Due gironi. – Precisò Lucifero, accendendo la milleecentodecima sigaretta della giornata. – Uno per i single e un altro per gli infelicemente accoppiati.

Un altro diavolo aggrottò la fronte: - Scusa, capo. Ma stiamo sempre parlando di dannati?

-Come no. I dannati più dannati della Terra. E la novità è che ce li prendiamo già da adesso. Da vivi.

Un’esclamazione di stupore si levò da ogni angolo del tavolo – si, perché il tavolo della sala riunioni è a forma di pentacolo, ovviamente – insieme a qualche fischio di ammirazione.

-Gli cambiamo anche l’insegna. – Annunciò Lucifero, soddisfatto. – Togliamo la parola lussuria, che tanto non impressiona più nessuno, e lo ribattezziamo: Cerchio dei Tormenti Sentimentali. Che ne dite?

-Non è un po’ troppo romantico? – Domandò un diavolo, perplesso.

- È perfetto, boss! – Esclamò il solito diavolo lecchino. – Dicci cos'hai in mente!

E Lucifero lo spiegò.

Intanto, aveva già consultato un famoso architetto di regime, ospite da molti anni nei gironi più bui dell’Inferno, e quello gli aveva preparato un progettino iniziale.

Due gironi, come aveva spiegato Lucifero: uno per i Single e l’altro per gli Infelicemente Accoppiati.

Parte del tormento consisteva nel fatto che entrambe le categorie di dannati potessero spiare il girone dell’altra attraverso delle speciali finestrelle.

E da queste finestrelle, ciascun dannato avrebbe visto solo la parte più idilliaca, nonché ingannevole, del girone dell’altra.

In questo modo, i Single avrebbero patito le pene dell’inferno nel guardare continuamente, da quelle finestrelle, scene di tenera vita coniugale, mentre, da parte loro, gli Accoppiati avrebbero bramato, in maniera quasi belluina, trovarsi dall'altra parte, perché, dalle loro finestrelle, avrebbero visto divertimento a volontà.

Per precisa volontà di Satana, che ha gusti sopraffini in fatto di design d’interni (si pensi alla selva dei suicidi: un tocco di classe!), il girone dei single è inoltre arredato con molto gusto ed è dotato di molti più comfort, tipo divanetti estendibili, letti ad acqua, moquette morbidissima.

C'è anche una vasca termale, con percorso caldo-freddo. Cabine docce più grandi. Frigo bar super forniti. E ciotole di salatini e stuzzichini sparsi ovunque. C'è anche un'area attrezzata con macchinari da palestra. E decine di altri spazi destinati alle attività più disperate - ops, lapsus mio- disparate. 

Dal girone dei single, gli Accoppiati Infelici sentono spesso provenire una gran musica e ne provano una struggente invidia. 

Non è la stessa musica che sentono loro - la Sigla dei Teletubbies e Lemon Tree sparate a ripetizione. Nel girone dei single, la musica è più movimentata. 

Latino-americano. Tango. Sottofondi jazzati. Tappeti pop-dance. Tunz tunz, qualche volta. 

Gli Accoppiati si torcono mani e cuori. Vorrebbero essere trasferiti lì, nell'altro girone, non fosse altro che per sfuggire alla tortura musicale alla quale vengono sottoposti.

Tormentati notte e giorno da discussioni estenuanti, litigi senza fine, loop di 'io parlo e tu non mi capisci' che in qualche raro caso fanno sudare freddo gli stessi demoni guardiani (anch'essi tentati spesso di chiedere un trasferimento al girone dei Single) le Coppie Infelici languono e gemono tra i tormenti delle loro relazioni malate, pungolati dai demoni con i lunghi forconi della gelosia, della frustrazione e dell’incomprensione.

Costretti a scervellarsi dietro a password che non riescono a trovare per avere accesso agli account dei propri partner e smascherarne l’infedeltà.  Intrappolati in cene silenziose dentro ristoranti dove i menu sono ottimi, ma la pena atroce, perché essa consiste nel cenare vicino a una Coppia Felice, occasionalmente prestata al girone per torturare i Dannati. 

Non è raro che qualche dannato, non tollerando più tale efferato sadismo, decida di sua sponte di passare al girone dei Single. 

I diavoli, preposti alla valutazione delle domande di trasferimento, esultano. 

È un momento che adorano. Anche se il loro lavoro è respingere le domande. 

Tradimento? Un solo tradimento? No, spiacenti, non rientra nei motivi sufficienti. 

-Un tradimento è un solo attimo di debolezza. Siete umani. - Dice il diavolo-esaminatore con zuccherina e diabolica indulgenza. -  Spiacente. Respinta. La domanda non è valida. 

-Ma io devo lasciarlo! – Implora la dannata del momento. – Mi ha già tradita tre volte. Mi trascura. Mi umilia. Lascia le sue mutande in giro per casa come se fossi la sua domestica. Quando voglio parlare, alza il volume della radio. Devo passare dall'altra parte!

-Cara, lei non può mollare un uomo che le sta rovinando la vita e si sta portando via il tempo migliore della sua giovinezza solo per questi motivi. Su, si prenda ancora del tempo. Rivaluteremo la sua domanda fra un po’.

E tuttavia ogni tanto, per spezzare la noia, i diavoli esaminatori accettano subito la richiesta di Trasferimento. 

Mettono il timbro sulla pratica e, con gesti carezzevoli, aprono la porta.

Il Dannato per un momento si sente rinato. Si guarda intorno.

Ha un intero mondo a sua disposizione. Palestre, locali, serie televisive, app per incontri. Si sfrega le mani. Ora si che è libero di divertirsi. Di essere se stesso. Di rinascere.

Per un po’, gode pienamente della sua libertà, al punto da domandarsi se i diavoli non abbiano sbagliato e, anziché mandarlo nel girone dei Single, non lo abbiamo spedito dritto dritto nell'Eden.

Sono errori che a volte capitano, visto quanto è burocraticamente indaffarata la vita dei demoni del Secondo Cerchio.

Poi, all'improvviso, Lui o Lei si sente osservato. Alza gli occhi.

Appollaiati su rami di alberi di mele, ci sono persone che lo fissano: il suo intero parentado.

Non capisce subito il perché, ma quegli sguardi lo mettono a disagio, sembrano togliere temporaneamente ogni piacere a ciò che sta facendo in quel momento.

Uno degli Esseri Appollaiati parla per primo. Un gracidio agghiacciante: - E quindi non sei ancora sposato/a? Figli ne hai? Non ne hai? Ma ti vedi con qualcuno, almeno? Non vuoi mica rimanere solo/a a vita! Se ti viene un infarto nel cuore della notte, chi ti presterà soccorso?

L’anima dannata scappa. Scappa via, inoltrandosi in un labirinto immerso nella nebbia tipo quello di Shining.

Proprio quando pensa di essersi perso, si imbatte in qualcuno: una bella ragazza sorridente, con un vestitino molto succinto. O un bel tipaccio palestrato, in stile Chef Rubio.

Si ferma, incantato/a.

-Ciao e tu chi sei?

-Lo psicopatico o la psicopatica di turno. Vuoi giocare con me? – E, con una mossa deliberatamente lenta, tira fuori l’oggetto che stava nascondendo dietro la schiena: non un’accetta, ma un cellulare, strumento di tortura estremamente sadico, che fa accapponare la pelle più di un gatto a nove code.

È a quel punto che il Dannato fugge urlando: - Voglio tornare indietro! Rimandatemi dall’altra parte, vi prego! Non voglio più stare qui.

A volte è troppo tardi. Ma a volte invece i demoni lo fanno tornare indietro.

Perché i demoni, si sa, sono sempre stati dotati di un gran senso dell’umorismo.

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Queste cotonate donnine anni Cinquanta che portano arrosti in tavola e sorridono infaticabili. Proprio qui, nel nostro inconscio. (a cura di Dorian)

Queste cotonate donnine anni Cinquanta che portano arrosti in tavola e sorridono infaticabili. Proprio qui, nel nostro inconscio.

Siamo donne evolute.

Dimentichiamo di fare la lavatrice.

Ripeschiamo dal cesto dello sporco una maglietta che ci serve assolutamente per completare qualche abbinamento.

Andiamo in palestra.

Proviamo a tenerci in forma.

Se ci mettono davanti un paccone di patatine formato famiglia, siamo capaci di finirlo da sole.

Tanto poi c'è il nutrizionista online, la dieta attaccata con una puntina a una lavagna di sughero.

I bambini ci piacciono, ma abbiamo capito che non è indispensabile metterli al mondo.

Anche l'amore ci piace, ma senza la colazione a letto, men che mai da Tiffany.

Non capiamo piuttosto perché tutto questo accanimento contro le coppie gay che vogliono sposarsi e fare figli.

Cioè, non vi lamentate tutti che la natalità sta precipitando a picco? Ehi. Approfittatene.

Non permettiamo a un uomo di pagare sempre lui, quando si esce.

In fondo, la parità è anche questa, giusto? Una volta lui ti offre una pizza. La volta dopo tocca a te...peccato che stavolta la cena era in un giapponese costosissimo.

Diciamo quello che pensiamo.

Non ci sentiamo in colpa perché siamo intelligenti.

Non ci sentiamo in colpa perché siamo intelligenti.

Non ci sentiamo in colpa perché siamo intelligenti.

Abbiamo questa frase scritta con un rossetto rosso indelebile su uno specchio della nostra immaginazione, dove siamo protagoniste di un film nel quale ci svegliamo bellissime tutte le mattine.

L'età che avanza non ci spaventa.

In giro è pieno di sessantenni che fanno la vita da ventenni.

Le vedi sotto le docce della palestra.

Corpi da sessantenni che lottano una strenua battaglia contro il Tempo, mentre i loro mariti invecchiano con stile o almeno questo ci dice il Mondo.

La cosa non ci riguarda.

Noi col Tempo abbiamo ancora un rapporto di amicizia. Ogni tanto beviamo con lui un bicchiere di ottimo vino.

Ehi Tempo, grazie per avermi fatta nascere in quest'epoca.

Lui sogghigna, Non c'è di che.

Non sorridiamo se non quando ne abbiamo voglia.

Ringraziamo tutti i programmi di cucina per aver fatto avvicinare i nostri uomini ai fornelli, che dio vi benedica.

Ci sediamo sfinite a fine giornata. A goderci quel meraviglioso, meritato riposo.

E proprio in quel momento, eccola: Lei è lì che ci aspetta con il suo grande sorriso rosso-ciliegia.

Il grembiule immacolato su un abito con la gonna gonfia. Sta trafficando ai fornelli.

Senza mai sporcarsi. Senza imbrattare il tavolo come facciamo noi.

Indossa grandi guanti da forno, tiene una teglia tra le mani. Una teglia fumante.

E questo è per i miei ometti che tornano stanchi stanchi dal lavoro, dice, anche se in casa non ci sono ometti.

Ti versi un bicchiere di vino, provocatoriamente.

Sfogli il depliant delle pizze a domicilio.

Lasagna fatta in casa, continua lei, più raggiante che mai, ragù fatto in casa. Chissà come saranno contenti!

Io stasera ordino una pizza, annunci fingendo di non averla neanche sentita.

In forno c'è anche una torta di mele. Gustosa, nutriente, ti informa lei sempre con quel gigantesco sorriso cremisi.

Fingi di ignorarla.

Cucinare è bellissimo, ti dice.

Ma chi te l'ha chiesto, pensi tu, continuando ad ignorarla.

Vedere la mia famiglia felice è bellissimo. Amo la sensazione di rendere meravigliosa la vita degli altri.

Tu sei felice? Ti chiede poi in un sussurro flautato.

In effetti lo eri. Non capisci perché lei venga fuori nei momenti meno opportuni, a rovinarti quei piacevoli momenti di solitudine in cui ti dedichi del tempo.

E tu ce l'hai una vita? Le gridi, esasperata.

Neppure adesso il sorriso impallidisce. Non trema, non vacilla. Sembra sfavillare ancora di più.

È questa la mia vita. Risponde. Accudire è la mia missione. L'unica missione che renda degna la vita di una...persona.

Brutta stronza. Stavi per dire...donna? Stavi per dire che accudire gli altri è l'unica cosa che rende degna la vita di una donna?

Ti guarda con aria innocente. Certo che no. Ma guardati. Guarda come sei stressata. Guarda me invece. Cucino e sorrido. Sorrido e cucino. E sai perché sono così felice?

Si, dici tu, arrendendoti, ormai totalmente in suo potere, sei felice perché accudisci tutto il giorno e non hai altri pensieri.

Ma no, sciocchina. Ridacchia. Sono così felice perché quello che vedi è solo nella tua immaginazione.

E nella realtà, chiedi, nella realtà cosa sei?

Una nevrosi culturale. Vuoi una porzione di lasagne?

Si, grazie.

Allora cucinatele!

E poi sparisce.

Sparisce in uno sbuffo di fumo.

Lascia odore di zolfo.

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L’AMORE AI TEMPI DEL "COS'ERA" ?(a cura di Dorian)

Mai come in questo inizio di Millennio l'amore è diventato un tormento.

In senso letterale molto spesso, stando a quello che emerge dalla cronaca nera e dalle statistiche.

Ma persino in dimensioni più rosee, come quella adolescenziale, l'amore è una grossa spina nel fianco, soprattutto per chi, come me, si trova a dover parlare a platee disperatamente innamorate.

Che poi, non è che noi, ai nostri tempi, non fossimo perennemente innamorati. 

Solo che noi, l'oggetto del nostro amore, potevamo vederlo solo se organizzavamo in modo strategico l'incontro. Tipo: sapevi a che ora prendeva l'autobus. Sapevi dove abitava, dove faceva gli allenamenti sportivi.

C'era una grande pianificazione dietro ogni incontro, ma quello che era certo è che, quando eri in classe, lui/lei erano fuori dalla tua portata. 

Pensarci non serviva a granché, solo a farti cogliere impreparato da insegnanti acidi, che ti avrebbero messo alla gogna, se ti avessero beccato a sognare ad occhi aperti mentre spiegavano le Catilinarie. 

Adesso invece i social hanno reso gli oggetti d'amore onnipresenti e raggiungibili, sempre e ovunque. 

Le facce dei miei alunni, quando li costringo a infilare dentro gli zaini i loro cellulari, mi ricordano facce di persone a cui hanno appena spento lo stimolatore cardiaco. 

Ogni tanto, mentre spiego, li vedo sussultare. 

Un palpito di emozione alla tragica morte del povero Ettore per mano di Achille? 

Macché. Hanno sentito il suono attutito di una vibrazione e dentro gli è esploso un tumulto, perché non sia mai che l'Oggetto d'Amore abbia appena inviato una notifica su Instagram o addirittura un WhatsApp. 

Ovviamente, per alcuni discipline, la faccenda si fa più dura. 

Voglio dire che quando tu, insegnante, devi rivaleggiare contro Amore, è come incrociare i guantoni con una categoria di peso più alta della tua. 

Matematica contro Amore ad esempio è come l'incontro tra un peso piuma e un peso massimo. 

Naseen Hamed contro Tyson, per dire. 

Perché, mettila come ti pare, una disequazione di primo grado non potrà mai dare un buon gancio ad Amore. 

In questo noi delle materie umanistiche siamo avvantaggiati. 

Quando la situazione si fa molto grave, nel senso che ho oltre metà classe soggiogata da Amore, ecco in quei momenti posso sempre contare sul fatto che la mia disciplina ha sempre a che fare con amori tormentati.

I miti greci: un affollato mosaico di storie d'amore ai limiti dell'oscenità. 

L'epica: un trionfo di amori finiti male, Ettore e Andromaca, Elena e Paride, Achille e Polissena.

I Promessi Sposi: Egidio e Gertrude, storia perfetta per parlare dei risvolti criminali di una coppia disfunzionale. 

La lirica medievale: Dante, Petrarca...tutto un enorme, ribollente fiume d'amore, dove la gente non si parlava mai faccia a faccia. Praticamente una situazione molto simile a quella di oggi. 

Di fronte a una ragazza distratta, che fissa il banco da un'ora con aria infelice, ho l'imbarazzo della scelta. 

Posso dirle: - Tesoro, riprenditi. Hai la faccia di un'Arianna appena mollata a Nasso da Teseo. 

A questo punto di solito negli occhi dell'infelice si accende un barlume di vita:

- Perché l'aveva mollata a Nasso? 

- Perché era uno spregevole opportunista. Ma tanto poi la paga. 

- In che modo? 

- La donna che sposerà, Fedra, si innamorerà del figlio di Teseo, Ippolito. 

- Cioè la moglie gli metterà le corna col figlio??

- No, figliastro. Teseo si era sposato prima con un'altra donna, Ippolita. 

- Ah ok. E Arianna? 

- Tranquilli. A lei andrà da dio. Letteralmente. Mentre è a Nasso, incontra Dioniso, il quale si innamora di lei. E Dioniso non solo era un dio, ma era pure il dio dell'ebbrezza. 

- In che senso? 

- Beh, diciamo che con lui ci si divertiva parecchio. 

- E si mettono insieme?

- Si sposano. 

Generale sollievo in tutti i cuori spezzati presenti. 

- E Teseo invece? Lo scopre che Fedra e Ippolito...

- No, no. Avete capito male. Non succede nulla tra Fedra e Ippolito. Lui la rifiuta e lei si uccide. Fine della storia. 

Guardo le facce. Oddio. Che ho detto. 

Ai miei tempi, era tutto normale. Che regine e principesse si uccidessero per amore. O che uccidessero per amore. 

Ai miei tempi sapevamo l’amore cos'era. L’amore era quello che portava Fedra ad impiccarsi e Ofelia a suicidarsi nel famoso lago. Sui libri, almeno. Ma nella realtà l’Amore era quello con cui scambiavi sguardi sull'autobus. Era tutto ben chiaro nella nostra testa. Sapevamo distinguere.

Adesso invece ogni storia di amore infelice che racconto ha echi sinistri. 

Quando sento la mia stessa voce raccontare queste storie, quello che sento è autolesionismo, depressione femminicidio e per un istante, orripilata, mi chiedo: ma che razza di concetto dell'amore è stato passato alla mia generazione? Quei greci erano pazzi. Erano tutti pazzi!

Provo quindi a deviare la rotta: - Sentite. Che ne dite se riprendiamo la nostra lezione? Stavamo facendo un interessantissimo discorso sullo scontro tra Papato e Impero. 

Una mano si alza: - Prof, ma un'altra storia d'amore a lieto fine ce l'ha? 

Ci penso. Esulto.

- Come no. Matilde di Canossa e Gregorio VII.

- Erano marito e moglie? 

- No, no, lui era un papa.

E poi mi blocco. 

Porca miseria. A quanto pare non c'è niente di più antieducativo dell'amore. 

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CORRERE A PERDIFIATO (a cura di Dorian)

Aveva sei anni, Rabbit, e una paura tremenda di lasciare la mano di sua madre, quando andavano in giro. 

Lei cercava di scrollarsi via la sua manina, con pazienza, ma a volte con esasperazione. 

'Siamo in un posto sicuro. Non devi avere sempre tutta questa paura di perderti'. 

Le maestre adoravano Rabbit, perché non provava mai a uscire dal cortile della scuola, non si allontanava mai dai loro sguardi, non faceva mai nulla di pericoloso.

Lo portavano ad esempio di fronte ai compagni: Rabbit non fa giochi rischiosi. Rabbit è giudizioso e prudente. 

Alla madre di Rabbit dicevano: Vedrà, crescendo, diventerà proprio un ometto responsabile. 

Un giorno nella classe di Rabbit arrivò un bambino nuovo, che aveva sempre il sorriso educato, ma lo sguardo ribelle. Mentre gli altri bambini correvano in cortile, lui leggeva un fumetto in disparte. 

Si chiamava Bear e lo piazzarono al banco con Rabbit. 

Ci voleva qualcuno come Rabbit, per tenere d'occhio un bambino come Bear. 

Ma Bear non rivolgeva quasi mai la parola a Rabbit, a malapena sembrava notarne la presenza. Se ne stava sulle sue, posando sopra ogni cosa uno sguardo che metteva a disagio gli adulti. 

Un giorno, mentre svolgevano degli esercizi di matematica, Rabbit si sentì osservato e, alzando gli occhi, incontrò quelli calmi di Bear. 

E Bear, senza alcuna cattiveria, con una voce normale, come se gli stesse chiedendo una matita, disse solo: Tu sei un cagasotto, sai? 

E poi si rimise a lavorare, come se niente fosse. 

Rabbit rimase senza fiato. Chinò la testa sul quaderno, sentendosi investito da un senso improvviso di vergogna. 

Qualcuno chiacchiera laggiù? Domandò da lontano la maestra. 

Nessuno di loro due disse nulla. 

Passarono i giorni e non arrivarono altri insulti da parte di Bear. 

Neppure Rabbit ci pensava più, ma evitava di guardare il suo compagno di banco. 

Poi accadde: un giorno, dopo la scuola, la madre di Rabbit non era lì al cancello ad aspettarlo come sempre. 

Rabbit sapeva cosa fare in una circostanza come questa. Aspettarla nel cortile, restare vicino alle maestre. 

Ma, nella confusione del momento, nessuno badava a lui. Non era il tipo di bambino da tenere d'occhio. 

E Rabbit mise un piede fuori dal cancello. Lo allungò, quasi per gioco, aspettandosi un rimprovero. 

Attese. Nessuno lo riproverò. 

Rabbit si guardò velocemente intorno e, senza saperlo, prese una decisione che mai avrebbe pensato di prendere. 

Superò da solo il cancello, mosse qualche passo e poi, via, di corsa, lungo il marciapiedi, facendosi largo tra genitori e bambini che si avviavano alle macchine. 

Conosceva quella strada. L'aveva percorsa tante volte, in macchina, con sua madre. E una volta anche in bicicletta, con suo padre. Aveva avuto paura, in quell'occasione, perché lungo la strada c'era un palazzo abbandonato e vi si aggiravano intorno tizi strani, che Rabbit aveva sentito definire da qualche adulto ‘tossici'. 

Non sapeva cosa fosse un tossico, ma si era fatto l'idea che designasse una precisa categoria di mostri, come zombie o vampiri. 

Passandoci davanti in bicicletta, Rabbit si era domandato se a quei tossici potesse venire voglia di inseguirlo per portarlo con loro dentro il palazzo diroccato e suo padre aveva riso, vedendolo gettare occhiate di apprensione in quella direzione. 

Gli aveva detto: dai, non fare il fifone. 

Che è come dire - oggi Rabbit se ne rende conto, improvvisamente - 'non essere un cagasotto'. 

Il pensiero del palazzo e dei tossici, nonché la coscienza della propria inaudita disobbedienza, gli piombarono addosso rischiando di schiacciarlo, ma Rabbit non rallentò. 

La strada era lunga e lui correva con disperazione, con spavento, ma anche con un senso sconosciuto di euforia, come quando si prende tanto fiato per spegnere le candeline su una torta tutte insieme. 

Le macchine gli sfrecciavano vicino, il palazzo abbandonato si avvicinava...era quasi sulla strada...ancora un po' e si sarebbe ritrovato solo nei pressi di tutti quei tossici, che si sarebbero accorti di lui e forse gli sarebbero corsi dietro. 

Il suo piccolo cuore batteva all'impazzata, stava per scoppiare, doveva rallentare ma non poteva, perché era appena comparso nel suo campo visivo il palazzo abbandonato.

Correndo come una saetta, Rabbit riuscì a malapena a lanciargli un'occhiata. Non si vedeva nessuno. Poteva farcela. 

Il sollievo che lo invase, quando capì che il palazzo si stava ormai allontanando alle sue spalle, fu tale da farlo svenire. 

Ora si che poteva rallentare. 

Ma Rabbit non rallentò. 

Le sue gambe viaggiavano ormai da sole, come se fossero fatte di puro vento. 

 

In seguito, ci furono delle conseguenze. E non positive. 

La madre di Rabbit, non trovandolo a scuola, si era allarmata. Le maestre di Rabbit erano entrate nel panico. 

Il trambusto si era diffuso in tutta la scuola, si stava per chiamare i carabinieri, finché la sorella di Rabbit non telefonò dicendo che Rabbit era appena arrivato a casa, affannato come un maratoneta, fradicio come un pulcino bagnato. 

A scuola i compagni adesso lo guardavano con la cosa dell'occhio, vagamente intimoriti da lui. 

Era l'esempio vivente di tutto quello che un bambino della loro età non avrebbe mai dovuto fare. 

Rabbit, di colpo isolato, si mise in disparte a disegnare su uno spiazzo di terra in cortile con un bastoncino. 

Ma, ripensando alla sua incresciosa condotta, risentiva nelle orecchie il rombo eccitato del proprio cuore, quando finalmente era arrivato davanti al portone di casa sua. Sano e salvo. 

Rabbit trasalì all'improvvisa presenza di Bear che gli si era seduto vicino. 

Per un po' non si dissero nulla, poi, quasi con diffidenza, si guardarono. 

'Giochiamo insieme?' Chiese Bear, sorridendo per la prima volta. 

E, con sua stessa sorpresa, Rabbit scoprì di volerlo. 

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COMMIATO (a cura di Dorian)

Anni fa, nella scuola dove lavoravo, una delle insegnanti venne improvvisamente a mancare.

Un colpo, dissero. Un colpo fulminante nel cuore della notte.

La chiameremo, per rispettarne la privacy, Professoressa Fiordelmonte. 

E tutta la scuola ne fu profondamente addolorata. 

Era una di quelle insegnanti che sanno farsi voler bene da tutti e la preside, che in genere era un tipo coriaceo, chiamò me e altri due colleghi per affidarci il delicato compito di organizzare una commemorazione. 

Pensavamo tutti che la Fiordelmonte se la meritasse e che un pubblico tributo alla prof potesse alleviare l'angoscia dei suoi ragazzi. 

Ci mettemmo a lavoro. 

Alunni e colleghi avrebbero ricordato quella buona insegnante con la lettura di poesie, aneddoti e ricordi di viaggi e progetti fatti insieme. Ma restammo alquanto sorpresi quando l'alunno Di Salvo, che, a memoria di prof, non aveva mai aperto bocca in classe, si offrì di cantare l'”Hallelujah” di Cohen. 

Intendiamoci: era un bel gesto. Solo che Di Salvo era l'alunno più indolente, amorfo e disinteressato che conoscessimo.

Nessuno si aspettava che sapesse cantare.

Con la scusa di provare il vecchio impianto audio della scuola, che non era proprio all'avanguardia, io e i miei colleghi chiedemmo a Di Salvo un'anteprima. Eravamo curiosi di assistere all'unico talento che questo oscuro ragazzotto aveva da offrire alla sua prof.

E Di Salvo ci accontentò. Qualche giorno prima della commemorazione, ci sistemammo in un'aula vuota.

Il professor Sereni lo avrebbe accompagnato con la chitarra. Io e il professor Senzadio, che per paradosso insegnava religione, avremmo fatto da pubblico.

Di Salvo prese il “gelato”, quel modello così antiquato di microfono che la preside usava per tuonare alle riunioni collettive, e già da come lo maneggiava si capiva che era la prima volta che ne toccava uno.

Sereni attaccò con quella toccante manciata di accordi che dà inizio alla canzone e, con molto anticipo sui tempi, Di Salvo cominciò a cantare.

Persino il microfono si ribellò fischiando al falsetto stonato della sua voce.

<<Dio benedetto>>, mormorò Senzadio al mio orecchio, <<non è possibile! Nessun essere umano può stonare così>>.

Alla chitarra Sereni, in evidente difficoltà, cercava di stargli dietro, ma non c'era niente che potesse compensare quella clamorosa assenza di capacità canore. 

Di Salvo però andò imperterrito per la sua strada e, quando lo strazio finì, ebbe persino il coraggio di rivolgerci un sorriso timido, ma soddisfatto.

<<Forse dovremmo fare un po' di prove prima della commemorazione>>, fu l'unica cosa che riuscii a dire.

Ma nessuna prova successiva riuscì a migliorare l'orribile performance di Di Salvo. 

Il giorno prima della commemorazione, noi tre ci riunimmo per affrontare il problema. 

Come si fa a farlo cantare? Questo trasformerà la commemorazione in una farsa. Sembrerà di essere a quella trasmissione...la Corrida. 

Senzadio scuoteva la testa atterrito. 

<<Sentite>>, disse Sereni, <<io un'idea ce l'avrei. Vi ricordate Sid Vicious? Il bassista dei Sex Pistols? Era talmente scarso che pare che Johnny Rotten gli facesse chiudere l'amplificatore durante i concerti. In pratica, lui suonava, ma nessuno lo sentiva>>. 

Ci guardammo, speranzosi, ma con un senso di colpa strisciante. 

Chiudere il microfono al povero Di Salvo? Ci sembrava un bruttissimo gesto, un atto quasi da bulli, tuttavia...

<<È un atto di misericordia, disse Senzadio, così evitiamo a lui di coprirsi di ridicolo e alla povera Fiordelmonte... 

Di rivoltarsi nella tomba, con decenza parlando>>, concluse Sereni. 

E così fu stabilito. 

Il giorno della commemorazione, la palestra era gremita di alunni e professori e le poesie e le belle parole dedicate alla prof scomparsa risuonavano una dopo l'altra come una sinfonia splendidamente accordata. 

Ma noi eravamo sulle spine, perché a chiudere in bellezza ci sarebbe stata la non-esibizione di Di Salvo, che, a sua insaputa, avrebbe cantato senza che nessuno potesse realmente ascoltarlo. 

Sarebbe sembrato un banale problema tecnico. La preside di sicuro non avrebbe gradito, ma in un clima di così grande commozione anche quel piccolo incidente avrebbe suscitato tenerezza. 

Ecco dunque Di Salvo presentarsi al cospetto della platea. L'emozione in lui era evidente, sudava ancora prima di cominciare, il che ci fece sentire meno in colpa per quello che stavamo facendo. 

Senzadio gli passò il microfono. Nessuno poteva accorgersi che, con un rapido movimento del dito, aveva spinto su off la levetta scura. Neppure Di Salvo se ne accorse, ma, a sorpresa, una volta impugnato il microfono, ci batte' sopra col dito e disse: <<Sa-sa. Prova-prova>>. 

<<Che stai facendo?>> Scattò Senzadio, allarmato 

<<Prof, controllo se funziona.>> 

<<Si che funziona. Stai tranquillo.>> 

Di Salvo era perplesso. <<No, prof, guardi che non si sente niente. Ah ecco.>> 

In uno sprazzo davvero insolito di presenza di spirito, Di Salvo, che in classe per lo più dormiva, si era accorto che la levetta si era inavvertitamente spostata su off. 

L'accese e tutti gli studenti lanciarono un lamento quando il microfono gracchiò rimbombando all’urletto di gioia di Di Salvo. 

Era la fine. 

Senzadio ci guardò, me e Sereni, impietriti sul primo gradone degli spalti, accanto alla preside e con gli occhi ci comunicammo la nostra reciproca impotenza. 

Non potevamo più salvare Di Salvo. Né tantomeno noi stessi dall'ira della preside, una maniaca del perfezionismo.

Chiusi gli occhi per non dover vedere l'umiliazione di Di Salvo ma, mentre attendevo il boato delle risate, attraverso il pavido conforto del buio, mi arrivò, forte e chiara, la voce di Di Salvo che faceva scempio della splendida preghiera di Cohen. 

Solo che improvvisamente accadde qualcosa di strano e inaspettato. Di magico, oserei quasi dire. Perché di colpo quella versione così clamorosamente storpiata, così brutta e imperfetta, sembrò chissà come la cosa più struggente che io avessi mai sentito. 

E aprendo gli occhi scoprii che non solo nessuno rideva, ma molti avevano gli occhi lucidi e qualcuno piangeva senza ritegno. 

E Di Salvo, là su quel palco improvvisato, solo nella sua tragica e colossale stonatura, sembrava per incanto l'essere umano più eroico e più nobile che avessi mai visto. 

Cantò con un trasporto commovente fino alla fine, stonando una nota dopo l'altra con tanta scioltezza che quasi quasi questa nuova versione cominciò a sembrarmi bella. Di una bellezza che è impossibile da descrivere e che di sicuro non avevamo colto in quell'aula spoglia dove l'avevamo così impietosamente giudicato.

Persino la preside si tirò furtivamente via una lacrima da un occhio e, quando la canzone fini, fu la prima ad applaudire. E dietro di lei, lunghissimo, sincero, l'applauso di tutti gli studenti e di tutti i professori presenti. 

Scortammo Di Salvo alla prima sedia libera, prima che cadesse svenuto. 

Ci guardò, quasi più meravigliato di noi. 

<<Mi sa che ho preso qualche stecca>>, ci sussurrò mentre l'applauso finalmente scemava e la preside riprendeva il microfono per il discorso di commiato. 

Ci guardammo noi tre, poi guardammo Di Salvo. 

<<Naaa>>, disse Senzadio, <<a me non sembra di aver sentito nessuna stecca>>. 

E sapevo che, in un certo senso, era sincero. 

<<Del resto, sai, l'emozione>>, aggiunse Sereni. 

Gli diedi una pacca sulla spalla: <<Sai cosa direbbe la prof se potesse ascoltarti.>> 

<<Quello che mi diceva sempre>>, sorrise Di Salvo. <<Se t'impegni, puoi arrivare ovunque.>>

<<È così>>, sentenziammo in coro, <<Ci devi crederci sempre>>.

E poi, colpiti dallo strafalcione, ridemmo.

Di Salvo ormai ci aveva contagiati. 

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